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Afghanistan, bosco di Mestre, clandestini, guerra, hazara, immigrazione, migranti, Pensieri, profughi, riflessioni, Zaher
Questa storia non ha lieto fine, è bene che lo sappiate, è una storia triste, molto triste e non è nemmeno originale. È una storia di quelle che purtroppo si ripetono tragicamente, nell’indifferenza di tutti. Gli eventi risalgono a qualche anno fa e quindi non è nemmeno una storia nuova, che meriti la vostra attenzione perché attuale, che possa coinvolgere lettori stimolati dal clamore delle notizie, dei telegiornali, dei dibattiti in tivù. Però è una storia vera, che trasuda umanità da tutti i pori, che coinvolge e commuove, che secondo me ci può aiutare ad essere migliori, a leggere con occhi diversi gli eventi che purtroppo sempre più spesso si verificano in questi anni e che proprio per questo ci stanno anestetizzando la mente e l’anima.
La nostra storia inizia molto lontano, tra sabbie e montagne a seimila chilometri da qui, nella direzione del sole che sorge. Zaher è un bambino coi capelli rossi e gli occhi verdi a mandorla, tratti somatici che sono come un marchio e rivelano la sua etnia hazara, popolo che si dice discenda da Gengis Khan. Un tempo la sua gente era maggioranza in Afghanistan, ma ora non più, dopo un secolo di persecuzioni e stermini sono solo una frazione degli abitanti di questo paese sfortunato. L’ultima strage era avvenuta solo dieci anni prima, a Mazar-i Sharif, città natale di Zaher, e lui era sopravvissuto.
Zaher potrebbe essere un bambino felice, come i nostri che vanno a scuola, giocano nei giardini pubblici, mangiano merendine ipercaloriche e a Natale ricevono più regali di quanti ne possano utilizzare. Invece Zaher non va a scuola, sa a malapena leggere e scrivere, non ha una cameretta piena di libri illustrati, ma ama le poesie e le impara a memoria, ha un taccuino su cui annota pensieri e frammenti di quei versi che gli piacciono tanto.
Questo corpo così assetato e stanco
forse non arriverà fino all’acqua del mare.”
(Quaderno di Zaher, foglio 11)
Zaher non ha tempo per giocare, per sopravvivere si inizia presto a lavorare e per questo emigra in Iran, dove fa il saldatore. I nostri figli costruiscono con i mattoncini di Lego, lui costruisce saldando il ferro. Nutre un sogno questo ragazzino dagli occhi a mandorla e così risparmia, mette da parte dei soldi per affrontare un lungo viaggio verso ovest, verso la libertà. Sa bene che è un viaggio pericoloso, che incontrerà gente malvagia, che dovrà superare mille ostacoli, ma si prepara, si informa, ed è sveglio Zaher, molto sveglio e molto maturo.
Non sappiamo quando parte e nemmeno con chi si mette in viaggio, ma possiamo immaginarlo mentre percorre le montagne flagellate dalla guerra, i campi minati, i deserti senza fine. Ha con sé il suo taccuino di poesie e quattro animaletti di plastica, i soli giocattoli che possiede, regalatigli da chissà chi, ultimo retaggio di un’infanzia tanto dovuta quanto negata.
Respira la polvere il piccolo Zaher, trattiene il respiro per non soffocare mentre buttato sul cassone del camion attraversa la notte. Trattiene il respiro per non farsi sentire quando i soldati fermano i mezzi ai posti di blocco e li controllano da cima a fondo. Trattiene il respiro per non piangere e non urlare quando incontra gli uomini cattivi, per non far vedere la propria debolezza, per dimostrarsi più forte di quello che è. Stringe nelle mani i suoi animaletti di plastica per farsi coraggio: la rondine, il leone, la giraffa, l’alce.
Corri bambino! Vola verso l’Europa, verso il mondo libero che ti attende. Lì forse avrai una nuova famiglia, amore, istruzione, gioco, felicità. Anche tu ne hai diritto.
Giardiniere, apri la porta del giardino;
io non sono un ladro di fiori,
io stesso mi son fatto rosa,
non vado in cerca di un fiore qualsiasi”
(Quaderno di Zaher, foglio 13)
Gli altopiani dell’Anatolia sembrano infiniti, ma Zaher stringe i denti e arriva a Istanbul, metà Asia e metà Europa. La strada però è ancora lunga, i pericoli non sono finiti. Zaher sa che ora l’attende la fase più delicata del suo viaggio, l’ingresso in Europa, quell’Europa così a lungo sognata e che ora può vedere dal porto di Smirne. Lesbo è lì, sembra a un passo, uno stretto braccio di mare lo separa dal Paradiso, un ultimo ostacolo da superare grazie a un passaggio che forse riesce a strappare a uno dei tanti barconi che fanno la spola sulla rotta dei disperati. Barconi che alle volte nemmeno ci arrivano a Lesbo, gommoni stipati oltre i limiti dell’immaginazione che sovente svaniscono tra i flutti e con essi sprofondano sogni e speranze dei loro passeggeri.
Ma Zaher ci arriva a Lesbo, come un novello Odisseo che sbarca sulla sua Itaca, e possiamo immaginare la sua gioia mentre bacia quella spiaggia.
Non so ancora quale sogno mi riserverà il destino,
ma promettimi, Dio,
che non lascerai finisca la primavera.”
(Quaderno di Zaher, foglio 11)
L’accoglienza europea ha le sembianze di due poliziotti: Zaher viene arrestato, non ha documenti con sé, è un clandestino di tredici anni e così viene affidato a una comunità, in attesa di essere rimpatriato. Gli viene notificato un provvedimento di espulsione. Che fare? Dove andare? Fuggire! Zaher riesce a scappare e a imbarcarsi clandestinamente su un traghetto che va a Patrasso e, da qui, a Venezia. Come ha fatto un bambino, un ragazzo che forse ha l’anima forte come quella di un uomo, a trovare il passaggio giusto? Come ha fatto a capire su quale nave imbarcarsi? E come ha fatto a eludere la sorveglianza? Non lo sapremo mai, forse si è legato sopra le assi di uno dei tanti TIR in attesa sul molo, come Odisseo si nascose nella pancia del cavallo di legno per entrare a Troia. La nave si chiama Ariadne, nome greco di Arianna: riuscirà con il suo filo a farti trovare la via? A condurti fuori dal labirinto?
La nave arriva a Venezia di primo mattino. È il 10 dicembre 2008, piove e fa freddo. Zaher si è legato sotto la pancia del TIR, questo lo sappiamo per certo. Non è una trovata molto originale, la polizia sa che molti clandestini fanno così, gli agenti si abbassano per guardare sotto i camion, ma è destino che questo ragazzino dal cuore grande riesca a passare. Nessuno lo vede, nemmeno i cani che pure scorrazzano sulla banchina. L’automezzo esce dall’area portuale e percorre il Ponte della Libertà, la striscia d’asfalto che collega Venezia con la terraferma. Chissà se Zaher sa che quel ponte si chiama così. Magari lo sa e sorride mentre il camion lo percorre a settanta chilometri l’ora.
“Il Ponte della Libertà! Sono libero anch’io! Sono in Italia!”
O forse non lo sapevi ed eri troppo impegnato a tenerti in equilibrio sopra quell’asse vibrante, a pochi centimetri dall’asfalto, sospeso tra la vita e la morte, tra la libertà e la prigionia, stanco, sporco, affamato. Ma di certo non avevi più paura oramai, perché chi ha fatto quel viaggio non teme più nulla, è come attraversare l’inferno e il purgatorio per approdare infine in Paradiso, novello Dante afgano, giovane hazara dagli occhi a mandorla, sei in Italia, non devi più temere.
La nostra storia finisce a Campalto, otto chilometri dopo l’uscita dal Porto di Venezia. Il camion si ferma a un semaforo, all’incrocio con Via Orlanda. Quando riparte, Zaher non è più sotto il mezzo, non è più legato sopra l’asse. Sarà sceso volontariamente? Sarà caduto? Sappiamo solo che quando il TIR riparte il suo fragile corpicino resta lì, riverso sull’asfalto in un lago di sangue. Accanto a lui un taccuino di pensieri e poesie e quattro animaletti di plastica: la rondine, l’alce, la giraffa, il leone. Il leone, simbolo di Venezia, non ti ha portato fortuna povero Zaher.
È grazie al taccuino che sappiamo tutto questo e grazie al prezioso lavoro di Francesca Grisot, mediatrice culturale del Comune di Venezia, e di Hamed Mohamad Karim, che ha tradotto quanto scritto dal giovane afgano. Il Comune volle ricordare questo ragazzino sfortunato dedicandogli uno dei parchi cittadini che sorge in ciò che resta dell’antico bosco di Mestre: il Bosco Zaher. Qui un’opera dell’artista Luigi Gardenal rappresenta il quaderno di Zaher, i suoi versi, i suoi quattro animaletti.
Io spero che questa storia possa servire a quanti troppo spesso liquidano sprezzantemente la questione “migranti” con frasi fatte e luoghi comuni. Spero che questa piccola e triste storia possa farvi guardare con occhi diversi quei volti senza nome che approdano sulle nostre spiagge o vagano nelle nostre città. Pensate per un attimo a Zaher e provate a chiedervi: e se fosse capitato a me? E se Zaher fosse stato mio figlio?
Tu porti il profumo delle gemme che sbocciano,
sei come un fiore di primavera.”
(Quaderno di Zaher, foglio 9)
Triste, terribilmente triste.
Ho cliccato il mi piace solo perchè qualcuno ha voluto ricordare questa giovane e spero non inutile vita spezzata. E quante ce ne saranno che non conosciamo.
E’ vero, chissà quante… Ogni volta che vado al Parco Zaher, a piedi o in bicicletta, mi fermo qualche minuto davanti a quel cartello, a quella scultura, a riflettere e penso a quanto sono fortunato.
E’ vero, alla fine siamo fortunati.
Oh, piccolo grande Zaher, io non ho parole.
Tu sarai per me nei fiori di primavera e nelle rose.
Ti abbiamo fatto troppo male.
Il tuo cuore era quello di un poeta.
Potrai perdonarci?
gb
Grazie gelsobianco, che belle parole. Mi sa che sei poeta anche tu
Come si può restare indifferenti a queste parole?
gb
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Sì, spero possa servire…
Allora siamo in due…
Anche di più, ma mai abbastanza, purtroppo 😦